Quando scese dal treno Betta portava con sé una grande busta rossa e le si accese il viso di gioia quando vide Paolo muoversi dalla posa analitica con il suo sigaro per andarle incontro. L’avveniristica stazione ferroviaria si apriva come un libro con sezioni parallele di cemento bianco che brillavano sotto la luce di un primo pomeriggio d’inizio maggio che faceva gli occhi della ragazza di un verde-azzurro intenso. Quasi tutti i passeggeri erano già sulle scale che scendevano sulla strada quando Paolo le gridò chiamandola per cognome, come soleva fare per sottolineare un tono di rispetto professionale non disgiunto da velature affettuosamente ironiche: “Alfieri io davvero non ci posso credere! Sei inconfondibile con il tuo rilassatissimo passo” Dilatando ancora il tempo con un sorriso Betta si affrettò facendo suonare il tacco degli stivali di pelle e quando si raggiunsero Paolo si stupì della busta, agitandosi in un gesto di quelli inconsulti che lo connotavano specialmente nelle occasioni in cui sembrava dover dimostrare qualcosa di rappresentativo in movimento, e fece per portargliela: “Non vedo dove dovrei correre se posso lasciarti il tempo di pensare qualcosa di gentile nella mia distanza. Non preoccuparti non è pesante, grazie. É sempre bello rivederti Paolo, mi diverte sempre il modo in cui mi prendi in giro ma oggi ho infilato questi stivali pensando piovesse anche se detesto il loro suono. Tu piuttosto sei sempre più buffo nel vestirti e così di bianco sembri voler dimostrare un vago stile colonial. Vuoi dirmi come l’abito faccia il monaco?” e come di sfida Paolo rispose categorico: “Lo fa”. Scendendo le scale suonavano ancora i passi e Betta rispose leggera: “Però speravo di salire a cavallo oggi anzichè sembrare un soldato nazista” “ Se c’è una cosa che ti riesce benissimo è confonderti tra gli ordini ecclesiastici e non sei arrivata fin qui per altri motivi” “Quindi stiamo disegnando insieme un ordine nuovo. Lavori ancora ad alternativi abiti da sposa per principesse?”. Arrivati all’auto Paolo fece posto per la busta di Betta, la quale sapeva di non potersi aspettare una risposta sincera alla sua provocazione, ma lo incalzò con la descrizione di un singolare abito uscito recentemente sui giornali. Paolo: “Non so di che parli, ma la chiave della macchina dove l’ho messa accidenti?” Ogni volta che Paolo doveva mettersi alla guida sembrava agitarsi perdendo alcune delle maschere serie che più gli piaceva indossare. Mentre si girava intorno pensando che la chiave gli fosse caduta a terra o sotto qualcosa, Betta notò una punta di blu sui pantaloni bianchi e un piccolissimo buchino sulla giacca, ma senza preoccuparsi affatto della chiave osservava teneramente divertita l’artista tra le nuvole e si mise a ridere quando trovarono la chiave che dal principio era nel cruscotto. Come infastidito Paolo sembrò preoccuparsi di ritrovare un’espressione seria e credibile, poi continuò a rovistare tra i cassetti dell’abitacolo in cerca di altro. Paolo si mise un paio d’occhiali da vista e la guardò “Ma lo sai che sei proprio bella? Non me ne ero accorto prima” Betta lo guardò tra l’imbarazzo e lo stupore poi lui continuò: “Non ci vedo bene da vicino e anche quando devo fare alcuni dettagli nei miei quadri devo mettere una piccola lente” Betta rispose prontamente a quello che le sembrò un gioco e indossò scuri occhiali da sole senza un’asta affermando “Io invece non vedo bene da lontano ma non metto sempre gli occhiali anche perché mi capita di perderli inspiegabilmente, in modo sistematico, al pari dei telefoni cellulari quando esco ubriaca da teatro, ma soprattutto mi sembra di capire meglio le cose dalla loro energia. La forma mi piace di più immaginarla” “..Magari rosa e con i fiori! Ma dove pensi di andare con questi occhiali giocattolo?” “Magari per te! Mi piace illudermi che le cose diventeranno come mi sembrano, poi i miei giocattoli sono prototipi per case di moda che conosci o che non posso non riconoscere sulle modelle esposte. Questo giocattolo si chiama Elle ma andrebbe progettato con un materiale a densità variabile per stare in equilibrio sul naso”. Allora suonò il cellulare di Paolo e Betta poté udire la voce di una bambina dall’altra parte, così che Paolo iniziò a ripetere più volte il nome di sua figlia Giulia cercando di consolarla per un brutto incidente capitato al gattino che la piccola aveva tanto voluto portare con sé in un appartamento all’ultimo piano di un palazzo. Il tono della telefonata fu per Betta piuttosto declamatorio e rimase in silenzio pensando alla sua inseparabile gatta e alle volte che l’avrebbe voluta con sé nei suoi viaggi ma più, come per il presentimento che la questione la riguardasse, si fece fredda come se l’aspettasse la cima di un pericoloso grattacielo dal quale cadere lei stessa.
La casa di Paolo era una villa alla quale la strada arrivava nella parte posteriore che dava su una piccola chiesa e lateralmente c’era un edificio a due piani con le stalle dismesse al piano terra e lo studio su tutto il primo piano. Intorno c’era un grande parco su cui Paolo stava lavorando, quindi accompagnò Betta in una passeggiata tra le siepi appena ridisegnate sul perimetro del vialetto sul lato anteriore della casa e disse: “Il terreno qui davanti non è mio. Quando i miei figli erano piccoli Giulia voleva tanto dei tulipani, così andai in Olanda in macchina perché sai che non prendo l’aereo. Presi dei bulbi che piantai proprio qui. Fiorirono solo il primo anno con dei colori bellissimi e poi, quando non ci ripensavo neanche più, sono riapparsi” Betta sgranò gli occhi e mille pensieri le passarono per la mente a quelle parole che in qualche modo l’avevano colpita ma non proferì parola e continuarono a passeggiare fino intorno al laghetto dove l’erba era più alta e incolta e Paolo continuò riguardo ai suoi progetti “Ci vorrebbero due siepi come quelle del viale davanti anche qui sopra, due grandi sfere verdi, e tutt’intorno al laghetto un bel canneto”. Sopra il terrazzamento furono davanti alla scala che dall’esterno andava allo studio e, salendo i gradini disconnessi in misure variabili sulla struttura metallica che portava alla porta, Betta provò un brivido che si decise ad esprimere: “più che altro dovresti rimediare alla sicurezza di questa scala anche se posso immaginare sia funzionale ad uno scopo emotivamente preparatorio alla destinazione, capisco il fascino del cantiere ma..” Paolo la interruppe “No hai ragione, appena posso ci metterò una scala a chiocciola” e Betta comprese chiaramente la malizia delle intenzioni di Paolo con le siepi ma la schiettezza del pittore la fece ridere, lo guardò con languida complicità poi ridiscese le scale e allontanandosi dal prospetto lo misurò argomentando: “Per arrivare a quella porta lassù in effetti non c’è molto spazio per una scala più lenta visto che sotto c’è questa grande porta centrale per le stalle… però io detesto le scale a chiocciola e non vedo cosa c’entri una specie di minareto su questo manufatto. Dovresti spostare la scala sull’altro lato e da lì salire in quota sulla prima porta-finestra anziché su quella che usi ora. Puoi fare un secondo ingresso, magari collegato all’altro da un ballatoio se non vuoi chiudere quello attuale e bilanciare simmetricamente. Guarda come qui la scala potrebbe salire più comodamente senza tagliare le finestre del piano terra. Meglio ancora però sarebbe un ingresso interno” Paolo sembrò convincersi ma volle comunque sollevare dei dubbi tecnici alludendo alla posa di putrelle, più per sottolineare il possesso di un termine tecnico particolarmente cacofonico che in qualche modo insopportabile gli attribuisse una qualche competenza in materia architettonica che per illustrare un problema reale, ma Betta non lo biasimò, consapevole che in tempi tanto tristi chiunque esibisca qualche terminologia, talvolta anche inventata il giorno prima, risulti in generale più credibile. Inconsapevolmente Betta fece trasparire il malessere per la propria rassegnazione nella comunicazione. Paolo lo colse e alleggerì il tono esclamando: “Balli tu poi”. Betta sorrise e anche se non abbandonò del tutto un certo disagio cercò di nasconderlo per rispondere affermativamente.
Entrando nello studio Betta si tolse la giacca e sulla lunga camicia bianca portava una delle sue ultime creazioni in ceramica raku, un grande ciondolo giallo con foglie blu avvolgeva il seno destro e posando la busta rossa estrasse un piccolo pacchetto dicendo: “Per te”. Paolo sfilò il fiocco mostrandosi colpito già dall’artigianalità della scatola in cartonlegno e sotto una velante carta rossa trovò un piccolo posacenere. Betta gli raccontò il progetto della Cittadella della musica a Lucca, un’architettura a corte, studiata qualche anno prima all’università, che si collocava in prossimità della demolizione dell’acquedotto ottocentesco con il passaggio dell’autostrada. “Fu il mio Professore che lo soprannominò il posacenere. Ho provato a rifarlo nei giorni in cui lavoravo ai gioielli come questo che porto, in vista della rappresentazione di cui ti parlai su L’après-midi d’un faune di Nijinski. In questa versione, rispetto alla prima che feci per l’esame, i volumi degli auditorium si aprono come scatoline giapponesi, guarda come in questa scala 1:500 si può collezionare l’esatta misura delle sigarette”. Paolo si dimostrò molto entusiasta ma concluse decisamente “Sarebbe stato meglio l’avessi rifatto in un pezzo unico”. Betta ne era già consapevole e non portò nuove argomentazioni sul piccolo modellino confessando di essere d’accordo con quell’osservazione. Betta si accese una sigaretta e continuarono a parlare del lavoro con la ceramica che l’aveva impegnata negli ultimi mesi illustrato in un piccolo libretto di 28 pagine. Paolo lo sfogliò fumando il suo sigaro e commentando i contenuti, ma aspettava di vedere se realmente Betta avesse usato come tale quello che aveva accettato di chiamare "il posacenere". Lei si alzò dal divano e percorse la grande aula di quadri accatastati apparentemente per caso leggendo la storia che sapeva esserle stata preparata quel giorno, mentre Paolo lasciò cadere della cenere sul libretto come traccia per suggerire di ripeterne l'esecuzione con un miglior risultato. Tele immense erano parzialmente scorgibili dietro altre più piccole e bambini con forti arti e facce plastificate si arrampicavano su alberi scuri, figure surreali più sacre erano vestite di verde indicando una scrittura che si faceva suono, poi ecco le nature morte su tavolini coperti da tovaglie fastidiosamente storte e turbanti. Accanto all'originale Spinario in tuta mimetica Betta trovò il nuovo ritratto di una donna con una corona di fiori in testa e una piccola borsetta di un giallo pastello fatto con una punta di verde, il corpo nudo e astratto come un totem dalla vita in giù era di un bianco porcellanato che la faceva cadaverica e dai seni rigati con verdi venature zampillava latte come da fontane, ma la tela finiva sfrangiata in basso da un taglio violento che faceva uscire il telaio di abbondanti centimetri. Paolo iniziò a parlare tra le urla che Betta cercava di contenere nella sua mente “É una modella dal viso molto particolare, sembra sempre un’altra a seconda del punto di vista da cui la si coglie. Poi mentre facevo il quadro ho pensato che in realtà lo volevo più alto”. Betta si avvicinò ad un posacenere rosa a forma di bocca e vi spense la sigaretta dentro, poi si tolse il gioiello che le cingeva il seno, accorgendosi d’improvviso che le faceva da tiralatte. Raggiunse la busta rossa estraendo una cappelliera e facendosi seria diede voce ad alcuni pensieri “La madre le disse di andare a Troia a cercare il più importante tra gli eroi dei fumetti e così Pentesilea trovò Achille che la illuse di aver vinto su di lui finché lei non ebbe coscienza dell’inganno e con un gesto si uccise. Allora Achille la possedette”. Betta era sopra la rossa scatola cilindrica in una posa distrutta e rimase con lo sguardo nel vuoto alcuni minuti che Paolo le concesse comprensivo senza proferire parola. Paolo si avvicinò allo stereo e ascoltarono la voce di Leonard Cohen tra le coriste di Dance me to the end of love con un calice di vino. Betta si sporse dalla finestra e le sovvenne l’epilogo di un film su un architetto americano che in Italia, non riuscendo a venire a capo di un progetto, finì per defenestrarsi tra mille ossessioni. Paolo le offrì da mangiare qualcosa premurosamente ma lei si spostò a sedere su una piccola scala doppia lasciata in mezzo alle tele e guardando ora quella in cui un uomo accompagna una donna ad entrare con lui in una vasca da bagno si mise a piangere disperatamente. Poi indicò un uomo in accappatoio coperto da un ombrello e gridò “Io l’ho visto lui!” e ancora un uomo sdraiato su un albero di giganti sigarette da cui pendevano polmoni come palle di Natale “Ho visto anche lui!”. Ed esplose in un pianto ancora più disperato. Vergognandosi, si voltò verso la tela del nuovo autoritratto di Paolo che appariva con un guanto blu mentre portava il pennello verso di lei, come prima che l'altalena sulla quale oscillava lo riportasse indietro, e sottovoce disse “Sei bellissimo qui”. Il sole stava ormai tramontando e i raggi si muovevano dalle finestre più alte ad ovest sulla parete est come fari teatrali in serie, quando Betta aprì la cappelliera dicendo “Alla fine i fauni della rappresentazione erano a torso nudo con decorazioni naturalistiche al collo e su una aderente tuta nera ma senza copricapo. Questo volevo portarlo ad Achille nella vasca da bagno” Paolo guardò dentro e una rete gialla per fiori profumava di patchouli confezionando una grande coppa gialla in ceramica che ancora emanava l’odore di bruciato tipico del raku. Fecero insieme alcune considerazioni sulla misura e portabilità del peso in testa e sulla forma che, sezionata da un piano uniforme, poteva essere appendibile alla superficie del muro. Ricercando un battesimo che riferisse l’oggetto ad una guerra o ad una corsa, nel caso di un elmo o di un casco, Betta sottolineò con innocenza: “Essenzialmente protegge dal pericolo e queste corna caprine sono sottili più come un nastro tagliato da una vittoria. Cinematograficamente poi ricorda quello dei soldati nel film su Gesù di Zeffirelli!” Paolo sembrò perplesso e Betta si accorse subito di aver espresso uno di quei suoi collegamenti onirici in una frase priva di senso mischiando immagini diverse in una unica e subito cercò di correggersi: “Sembra l’elmo dei soldati in Jesus Christ Superstar.. sono quelli che hanno elmi stupendamente pazzeschi. Il Gesù di Zeffirelli l’ho rivisto qualche sera fa e non riesco a togliermi dalla mente la luce blu dell’aurora, quella magia dell’ora blu che Zeffirelli sembra aver girato senza effetti alle 6 del mattino per far vedere Giuda nel suo tormento. Quello è un momento del giorno così breve e intenso che penso ancora a come l’abbia potuto afferrare”. Paolo ripose l’oggetto nella scatola e la scatola nella busta dove c’era un ultimo piccolo pacchetto che non aprirono ma davanti al quadro di un uomo avvolto dal vento Betta disse: “C’è una collana di foglie come queste”.
Paolo andò davanti al televisore e lo sintonizzò su un nuovo film su Marylin Monroe in un contrastato bianco e nero che in una scena faceva la pelle della diva tanto bianca quanto nere le venature sui seni. Betta cercò con forza di prevalere sulla sua parte emotiva ma dopo poco si assentò per andare in bagno. Spazzolini da denti di vari colori erano sparsi ovunque e accanto allo specchio che sopra al lavandino era posto tanto in alto da tagliarle la testa come allestito per un gigante, erano dipinti sul muro occhi piangenti di diverse dimensioni. Betta alzò i talloni dal pavimento guadagnando qualche centimetro per scorgersi, ma proprio allora si sentì ridicola dalla testa fino alla punta dei piedi. Si lanciò sull’interruttore della luce per fare buio e, perché fosse totale, uscì sul vano dell’ufficio di Paolo su cui dava il bagno con una porta verticalmente tagliata da un vetro, ma tutto si fece potentemente blu dal luminoso termostato sopra l’interruttore. Betta cercò freneticamente sulla scrivania il primo pezzo di carta con cui poterlo coprire e ce lo attaccò. Si lasciò cadere a terra, dove rimase a contorcersi strappandosi i vestiti come per uno sfogo di nervi e si trascinò dolorosamente sul pavimento gelido attraversando una zona di calore che sembrava provenire dal passaggio di tubature sotto il solaio e arrivò alla doccia aprendo l’acqua come in un rifugio di salvezza. Quando il piccolo bagno era ormai una sauna, uscì dalla doccia sentendosi privata di tante paure: il vapore offuscava il riflesso dello specchio, come anche il vetro su due piccole stampe che non aveva notato prima. Con una mano scoprì una sezione architettonica campita di rosa e con l’altra i tulipani di J.T. De Bry sopra le montagne di un grafico del Seicento. Uscendo dal bagno riaccese la luce facendosi coraggio e sul foglio sopra il termostato era scritto “tutto il mondo”. Betta avvertì un milione di occhi che la trafiggevano.
Paolo sembrava rilassato davanti una partita di tennis in tv in cui il campione spagnolo Bautista stava avendo la meglio sul giovane norvegese Ruud agli ottavi di finale dei Canadian Open e Betta si avvicinò al cavalletto su cui era apparso un cartone scuro che Paolo aveva solo firmato. Sul retro c’era anche una targa stampata bianco su nero che riportava: “Paolo Carpis (1958), Maddalena Leggente (copia da Lambert Sustris), 2002, collezione Achille”. Sul cavalletto era appoggiata una matita e un carboncino che convinsero Betta a "rimandare la palla oltre la rete" e iniziò a disegnare cercando di imitare con la linea il linguaggio di Paolo. Quando si avvicinò ad una tavolozza di colori girò il blu con il pennello ma Paolo si svegliò gridando “non sai usare l’olio ferma!” Allora Betta spalmò il colore che aveva sollevato come un rossetto sul posacenere a forma di bocca e indicando un cerchio disse: “Arancione?” quindi con il carboncino campì una zona chiusa. Paolo le chiese: “Il soggetto qual'è?”. E Betta con tono giocoso: “Capella è una stella multipla della costellazione dell’Auriga!”. Paolo mugolò con il suo solito tono d’indagine: “mmm…”. Era ormai notte fonda.
Betta lasciò Paolo davanti al disegno e per distrarsi si sedette al pianoforte accorgendosi che era stato accordato dall’ultima volta che lo aveva toccato. Cercò allora di ricordare l’Improvviso che aveva studiato anni prima, ma Paolo la interruppe e la baciò. Il gesto di Paolo sembrò dettato da un obbligo, un'intenzione drammatica che lasciò Betta un momento interdetta: mentre ripensava il film Ritratto di Signora in cui proprio l’Op. 90 n. 3 di Shubert faceva da colonna sonora allo spirito indipendente della donna, senza cercare spiegazioni lo guardò fisso negli occhi per dirgli: “Paolo io.. ti sono molto affezionata” e tornò davanti al cavalletto riflettendo sulle possibili implicazioni di significati tra quell’episodio e il disegno finché iniziò a sentirsi stanca. Nell’udire un rumore fortissimo, nitido e inconfondibilmente al servizio di una precisa battuta gridò davvero spaventata quasi più per l'esattezza del calcolo: “Sento un batter d’ali gigantesco!”. Paolo, che inizialmente la contraddì, si alzò con poche preghiere e raggiunse la busta di plastica mossa dal vento che avvolgeva un quadro sotto la finestra aperta. Betta si decise ad andare verso il materasso nella penombra sopra lo scalone per riposare ma dopo l’ultimo gradino inciampò sul tubo azzurro avanzato da una cornice che Paolo aveva inventato con il materiale di rivestimento per l’isolamento dei cavi elettrici. La piroetta la rigirò verso Paolo che da sopra le scale le apparve come in una tomba e una vertigine la fece lanciare verso la finestra più vicina a vomitare. La luna danzava tra rapide nuvole di pioggia e quando Betta rientrò era argentata tra il materasso e uno specchio inclinato che la dimostrava più slanciata. Si avvicinò alla struttura che la rifletteva trovandovi appesa una cravatta antica e dietro quella intravide un piccolo quadro in bianco e nero incassato nel muro. Delle grida riempirono tutta l’aula pietrificando Betta in posa pudica e in un ultimo sospiro chiese: “Cosa guardi?”. La voce di Paolo si unì alle grida: “Un film horror”.
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