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IL TERZO TEATRO di Franco Ruffini

Il metodo storico non consiste nell’esporre i fatti ma nel raccontarli e il primo presupposto del racconto è che esso non pretende di dire la verità dei fatti ma di essere credibile e se possibile piacevole.

I fatti sono aneddoti, quindi i fatti riportati sono inediti etimologicamente e dunque non ancora portati alla pubblica attenzione alla quale si sottopongono attraverso il racconto. Nel racconto della storia non esistono fatti casuali ma solo sincronie nel senso Junghiano del termine. Le sincronie sono incontri e appuntamenti anche se chi li ha fissati resta ignoto come il motivo degli appuntamenti. E’ fondamentale il fatto che non esistano concomitanze ma solo sincronie perché se i fatti in sincronia non fossero degli appuntamenti non ci sarebbe una ragione per il loro concomitare e il racconto della storia sarebbe come una favola senza parabola e senza morale. Viceversa se si racconta una favola è per arrivare ad una morale.

Gli aneddotti devono essere molti, certamente un numero superiore a due perché se uno fa il caso, il secondo la coincidenza e dal terzo in poi fanno il segno.

Racconterò quindi quattro aneddoti sui corpi estranei che riguardano i maestri della prima rivoluzione del ‘900 d Craig a Mejerchol’d risparmiando Artaud.

Crig ha scritto che la sua visione del teatro imminente, quello del divino movimento, gli era stata data dalla danzatrice Isadora Duncan e da “certi negri che ho visto danzare una sera in un vicolo del porto di Genova”. Sia Isadora Duncan che i “certi negri” erano per Craig corpi estranei” al teatro che lui sognava di fare, in cui non c’era posto per la danza per i suoi gusti estetici e pregiudizi ideologici. Isadora Duncan, prima di essere una famosa ballerina, era anche una donna molto bella con cui Craig ebbe una duratura e feconda avventura amorosa e per Craig prima di essere una danzatrice era una femmina, un concetto poco lusinghiero per Crig che pensava il femminile come una casuale appendice dell’uomo, un ruolo destinato alla gravidanza e al compiacimento della passione dell’uomo, pensava addirittura che i tanti figli che aveva seminato con le sue avventure non venissero dall’accoppiamento che aveva avuto con queste donne ma da un compimento del loro destino di mantenimento della specie. Il corpo femminile era un corpo estraneo anche al suo teatro, tanto più se danzatrici. E quanto ai “negri”, da dandy qual’era e intimamente e forse anche inconsapevolmente razzista, lui li vedeva come un incidente cromatico della specie homo sapiens intesa come maschio dalla carnagione chiara come la sua. Ma nonostante questo, questi corpi estranei e totalmente estranei alla sua personalità accesero in Craig la sua visione del teatro imminente e l sua visione del divino movimento perché a prescindere dal colore della pelle e dall’esercizio performativo avevano una caratteristica distintiva. Non era la loro azione a portare il movimento ma era il movimento a portare la loro azione: questi bisticci alla Craig che possono apparire come futili giochi di parole sono invece carichi di contenuto. Il primum del teatro di Craig non è l’zione degli attori ma il movimento, il divino che attraversa i corpi degli attori e li mette in azione, quel divino che Craig aveva colto nei corpi estranei dei negri e della Duncan e aveva acceso la sua visione del tetro imminente, il suo teatro del divino movimento.

In tutte le biografie di Stanislavkij si racconta della passione che lui aveva di recarsi al giardino d’estate a Mosca e rimanere lì estasiato ad ammirare i funamboli camminare sulla corda tesa. Secondo lui gli attori dovrebbero capire la straordinaria bellezza che c’è nell’attenzione ad ogni passo di quegli acrobati e non la prestanza fisica e lo sprezzo del pericolo. Nell’esattezza di ogni passo c’è il rischio della vita. Altrettanto noto è l’amore di Stanislavskij fin da piccolo per il circo equestre. Ma i funamboli, non erano per lui attrazioni circensi ma un modello per il suo tetro imminete. Anch’essi sono corpi estranei ai suoi gusti estetici e di teatro, quello dei toni sottili e dei gesti minimali, dei rumori diffusi d’atmosfera ceckoviana, al quale è estranea la prestazione fisica del funambulo. Ma anche dal punto di vista della sua cultura di ricco e convinto borghese detestava ostentare le fonti dei propri piaceri tra cui non avrebbe di certo menzionato né i funamboli, né l’alcol dal quale si asteneva come dalle avventure morose. Ma l’azione dei funamboli, per quanto appartenente a corpi estranei, era credibile. L’azione dei negri di Craig era portata dal movimento mentre quella dei funamboli di Stanislavkij era credibile.

Jean Cocteau, il regista francese fondatore del teatro XXXX del 1913 porta un aneddoto del 1917, dopo quattro anni d’interruzione delle attività di spettacolo a causa della guerra, quando il XXXX(vicolombiè) riprende gli spettacoli. Nel 1917 al Gerick Theatre di New York presenta le furberie di scabino di Moliere con dentro improvvisazioni dalla commedia dell’arte. Cocteau non soddisfatto del risultato dello spettacolo, una sera, uscendo dalla sala teatrale al termine dello spettacolo, vide una “grossa donna delle pulizie fiamminga in un abituccio grigio-azzurro sporco” intenta a pulire il piano del palco e le scalinate d’accesso al palco e rimane affascinato e folgorato perché i movimenti di questa donna fanno tutto e solo quello che è rigorosamente necessario senza economicizzare un briciolo di energia in meno e senza spendere un briciolo di energia in più. Questo era un corpo totalmene estraneo non solo al teatro che Cocteau voleva fre ma anche ai suoi gusti estetici di magro, raffinato intellettuale, sottile e dotato di un’elegaza naturale e un applombe fisico del tutto estraneo alla corporatura massiccia e mal vestita di una grossa donna delle pulizie. Le sue attrici erano eleganti e addobbate da costumi raffinati. Eppure fu proprio questo corpo estraneo ad accendere le sue visioni di teatro perché le sue azioni erano sincere.

Cambiano gli aggettivi del movimento, della credibilità e della sincerità ma si inizia ad intuire il segno di qualcosa che riguarda profondamente una morale della favola del teatro che con Mejerchol’d nel 1921 inaugura ufficialmente la sua biomeccanica. Per la prima volta ne scrive e parla pubblicamente. Chi ha avuto l’opportunità di vedere i filmati del suo spettacolo capolavoro del 1926 “il revisore dei conti” (due parti sono giunte in due frammenti video della durata di 2:20 e 3:19 minuti ognuno) si rende conto che l’attore meccanico di Mejerchol’d non somiglia a quello degli studi ma è un ricamo di micromovimenti in cui ognuno si salda al successivo e al precedente come fosse portato dal flusso invisibile di quella che Mejerchol’d chiamava la vera danza, in opposizione a quella che spregiativamente luichiamava la danza danzante e quindi quella che vuole mostrare ed esibire il flusso interiore che la anima. Indubbiamente questo era il teatro che amava fare, ma quando parla dei modelli dell’attore biomeccanico in modo imprevisto cita tre immagini: il ginnasta alla sbarra, un certo Max Dilli che era un attore di voderille, uno chansonlier scansonato e civettuolo parigino e poi un ex puparo catanese diventato attore diventato famoso per i suoi acrobatici e vertiginosi salti in scena. Tre situazioni molto estranee alla filosofia del soprannominato dottor dappertutto che era Mejerchol’d con allusione a Hoffmann al quale guardava per portare in teatro i sofisticati e sottili e quasi metafisici araberschi. Ma l’azione del ginnasta come quella dello chansonnieur e del saltatore era organica, portata dal movimento secondo Creig, credibile secondo Stanislavkij e sincera per Cocteau.

La morale della favola è la scoperta del Corpo. I maestri della prima rivoluzione teatrale semplicemente rifiutarono di cercare l’eredità essenziale del teatro in quel suo figlio naturale che è lo spettacolo. Non pensavano agli attori, ai personaggi ma a funamboli, chansonnier, a grosse donne delle pulizie, pensarono al corpo. Scoprire il corpo sembrerebbe “la scoperta dell’ombrello” come un’ovvietà, ma in realtà è stata una rivoluzionaria scoperta perché l’ombrello non è un parapioggia ma il parapioggia che si può chiudere ed usare sia con la pioggia che senza. La prima rivoluzione teatrale scopre il corpo come misterium fascinans et tremendum, e quindi l’idea di un corpo che non è un corpo come quello fisico ma include come una matriosca altri corpi che chiamiamo sentimenti, pensieri, volontà, spirito quando incapaci di descrivere il concreto ci rifugiamo nell’astratto per riportarlo con il pensiero alla concretezza del cuore.

Il Corpo include quello fisico con la sua materia naturale che sono le azioni, quello psichico ha come materia naturale i sentimenti, e la materia naturale di quello mentale sono i pensieri. I maestri del teatro immanente individuarono senza specificarlo delle discipline specifiche per ciascuno di questi corpi interiori e composti nel Corpo. Stanislavkij nel suo libro sul lavoro dell’attore su se stesso ci offre dichiaratamente una serie di esercizi e discipline per lavorare su ogni natura del corpo e sui colori dell’essenza. Stanislavskij nel descriverle agisce, come il suo allievo Grotovkij, in maniera negativa. Comincia con l’individuare qual è il nemico specifico dell’essenza naturale di ciascun corpo e insegna non come costruire i corpi che nel loro insieme costituiscono il Corpo, ma come eliminare gli ostacoli e combattere i nemici che impediscono ai corpi di manifestarsi nella loro maniera naturale. E allora schematicamente il nemico dell’azione diventa il gesto, quello dei sentimenti sono le emozioni e quello del pensiero concentrato su uno scopo sono le divagazioni e i pensieri in libertà e le nobili idee astratte. Stanislavskij non era un estremista ed era consapevole che si può condurre una battaglia contro i gesti non per annientare i gesti dell’attore ma per metterli in ordine nel giusto ruolo di colori dell’azione e allo stesso modo per le emozioni che colorano i sentimenti e le divagazioni che colorano il pensiero concentrato. Senza colori il disegno perde vivacità ma con troppi colori il disegno perde la vita e sparisce fino a scomparire alla vista. Stanislaskij con le sue discipline ci suggerisce come arrivare ad una armoniosa convivenza tra quella che è l’essenza naturale dei corpi e quelli che sono i loro colori. Nella lotta contro i gesti obbligava gli attori a ripeterla da seduti con le mani sotto alle gambe e un velo davanti al volto, bloccando le parti del corpo più mobili e volatili, quelle in cui massimamente si esprime la gesticolazione dell’attore pavone e bloccando questi l’attore è naturalmente costretto a dirottare l’azione e a trasferirla e ridurla alle parti del corpo più massicce e meno predisposte ad una gesticolazione ornamentale e futile. Naturalmente le mani e il volto, una volta liberati, trovavano nell’azione i colori abbinandoli all’essenza. La lotta contro le emozioni comprendeva le tecniche della memoria emotiva, che con l’Actor Studio e le traduzioni americani dei testi non sottoscritti d Stanislavkij, è diventata come una forma di psicodramma interiore che porta alla rivelazione di parti nascoste e segrete di noi stessi, segrete a noi stessi stessi, ma la memoria emotiva originale in Stanislavkij consisteva nel richiedere all’attore di ricordare un sentimento provato nel passato per riportarlo nel presente. L’attore nel riportare il sentimento nel presente, riporta con esso tutta la memoria confusa di quello che aveva provato nel passato e Stanislavskij con una grandissima pazienza costringeva l’attore a ricordare una per una le circostanze del momento in cui quel sentimento era stato provato nel passato e focalizzando l’emozione che l’aveva provocata eliminare quell’emozione. Il sentimento liberato dalla tempesta emotiva del suo primo apparire poteva essere riportato nel presente e colorarsi di emozioni del presente. Craig odiava l’attore pavone che amava ostentare la sua tempesta emotiva, li chiamava attori di temperamento quelli che volevano dimostrare di non essere più padroni di se stessi. La tecnica consisteva proprio nel depurare il sentimento dalla tempesta emotiva per portarlo in superficie nella sua essenza e poi colorarlo. La lotta contro le divagazioni del pensiero concentrato è stata forse quella più lunga e stenuante di Stanislavkij che vede sfruttare la tecnica delle azioni senza niente e cioè quelle che dovendosi svolgere con un pennino su un foglio poggiato su un tavolo avvengono senza un pennino, senza un foglio e senza un tavolo, che l’attore deve costruire con il pensiero se vuole scrivere tra le righe dentro al foglio o raccogliere il foglio da un inesistente tavolo. Le azioni senza niente sono un esercizio implacabile che costringe alla concentrazione assoluta non soltanto sull’oggetto con le sue componenti materiali che condizionano la performance ma anche su tutte le sue componenti emotive e intellettuali perché l’attore che scrive una lettera senza niente deve anche concentrarsi su chi è il destinatario di questa lettera e perché la scrive, cosa e come vuole dire… Stanislavkij era talmente affezionato a questi esercizi delle azioni senza niente che li praticava lui stesso come una preghiera venti minuti al giorno tutti i giorni, come una toletta spirituale che non si fa solo quando si ha paura e diventa una richiesta d’aiuto, ma si fa tutti i giorni perché diventi un dialogo con qualcosa che ti trascende.

L’essenza dei corpi e i colori dell’essenza

Le strategie per liberare l’essenza dei corpi che compongono i Corpo nella pienezza del suo misterium fascinans et tremendum.

Queste discipline si trovano tutte nel training del terzo tetro che nel controllo delle azioni segue proprio la disciplina di lotta contro il gesto e anche se sembra non curarsi della lotta contro le emozioni il terzo teatro come improvvisazione controlla la tempesta e la concentrazione. Il training come le discipline riconolizzano il corpo dell’attore ad una specie di seconda natura in cui diventi naturale, sebbene non naturale rispetto alla prima natura, di agire in azioni e provare sentimenti e pensare in modo concentrato e quindi un corpo efficace nell’azione, sobrio e potente nel sentimento, un corpo concentrato nel pensiero. Questo attore ricolonizzato entra nello spettacolo ma rovesciato: non è più lo spettacolo che dà senso e valore all’attore ma il contrario, il lavoro dell’attore da senso e valore allo spettacolo. Il rovesciamento è una rivoluzione.

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