Sebbene le persone qui siano meno del prevedibile dalle partecipazioni alle presentazioni dei laboratori degli anni precedenti, per le quali si presentarono in "centinaia", con cani e famiglie, per lasciarci già dalla prima lezione in quattro gatti, sono felice che siate già "i quattro gatti" perché per il tipo di laboratorio che svolgeremo, fino a una decina di persone è gestibile nel migliore dei modi, mentre con il salire del numero dei partecipanti inizia a diventare più complicato dare un metodo. Il primo impatto, mi rendo conto sia diventato ancora più duro degli anni precedenti, perché per raggiungere questo spazio della Polveriera il percorso si è fatto sempre più degradato, e detto senza fronzoli, arrivare fin qui è già una sfida per cui iniziare un’attività che vada avanti fino a giugno non è scontato per tanti motivi, e questa molteplicità riguardante la sicurezza si aggiunge a quei motivi che coloro che mi seguono da diversi laboratori già conoscono.
Vengo qui oggi con Cosma, che frequenta i miei laboratori ormai da qualche anno, con il quale sono stato ad un pranzo dove eravamo stati invitati e dove gli altri partecipanti erano gli anziani di un centro. Ho riflettuto sulle parole che si sono usate in questa circostanza e che hanno voluto evitare proprio termini come “anziano” e “vecchio”. Ecco che anche in questo luogo in cui vogliamo svolgere il laboratorio le parole sono molto importanti, perché come quelle persone per le quali conta sentirsi giovani anche qui conta decidere le parole che ci portano a sentirci in un modo piuttosto che un altro. Oggi ho sentito la paura della morte in modo palpabile e il nostro confronto suscitava in loro qualcosa di immediato quanto fisiologico: “loro sono più vicini di noi a una soglia, a una certa scadenza”. Io lavoro molto con il mio teatro sul tema della morte perché molto spesso nel vivere è qualcosa che siamo portati a dimenticare ma tutti prima o poi raggiungeremo quella soglia e proveremo quel sentimento di paura. La paura è l’elemento principale del teatro che si proietta su quella ultima della morte, la vita presenta la paura in fondo in modo costante, dalla paura di invecchiare, di ammalarsi, di non avere soldi, di non finire gli studi, di trovare un lavoro, e proprio la paura ci fa andare avanti. La paura nasce con l’essere umano che da bambino la prova nel buio e da grande nel mettersi sotto la luce e andare in scena, perché questa è naturalmente la vita proprio come il teatro. Ma il teatro è finzione e per questo la paura che leghiamo al suo esercizio è probabilmente l’ultima per importanza sulla scala gerarchica delle paure della vita. Il teatro nella sua finzione della vita è qualcosa di superfluo, è qualcuno che racconta a qualcun’altro una storia e colui che ascolta vi si riconosce e si conosce meglio. Ma cosa c’è di difficile? Cosa c’è dietro 3000 anni di un’arte che nasce da quando un giorno qualcuno ha acceso un fuoco e ha iniziato a raccontare, tale da creare metodologie, sistemi, mestieri, percorsi..? Il teatro è un’arte che nasce già perfetta, nasce con l’uomo che vuole dire qualcosa in uno spazio e noi compagnie, con i laboratori ecc.. possiamo solo danneggiarla. Tutti i metodi di teatro possono solo danneggiare il teatro. Il nostro compito è trovare il modo di levarci tutte le strutture che rendono più goffo il nostro doverci muovere, il nostro fare facce ecc.. dobbiamo arrivare a levare noi stessi per comprendere e tornare alla perfezione naturale del teatro. Dobbiamo imparare l’importanza dell’assenza. L’assenza deve essere più importante della presenza perché quando ce ne andremo dal palco lasciando il pubblico è proprio la nostra assenza che lasceremo con loro. Bisognerà creare un’organicità che porti allo spettatore con cui entreremo in relazione un qualcosa che quando ce ne andremo gli mancherà: questo è il lavoro dell’attore. Dobbiamo imparare come far diventare la nostra assenza più importante della presenza. Un buon teatro è quello in cui si crea una buona qualità di silenzio: il recitare, il citare una grande quantità di parole, vuole lasciare il silenzio perché lì la misura di quello che abbiamo lasciato.
Per entrare in quello che faremo qui, questo è quello che serve per capire che tipo di lavoro si svolgerà senza un obbiettivo chiaro ma sulla presenza, in particolare quella scenica e sul capire come un attore possa utilizzare al meglio il suo corpo. Al laboratorio di quest’anno ho dato il titolo “il corpo parlante” proprio per entrare in questa relazione con lo spettatore perché come ho già detto quello che è nato perfetto ora può essere letto con sovrastrutture che lo imbrigliano alla società, modi di fare, vestire, parlare, guardare ecc.. che sul palco diventano ridicoli. La ricerca del naturalismo come imitazione della vita diventa banalmente uguale alla vita. Noi lavoriamo quindi su un’altra ricerca che è quella di una forma nuova, ricercare la forma significa ricercare qualcosa di delimitato e concluso, morto. La forma è quel gesto che si conclude scontrandosi con la vita dell’aria che sposta, nella gravità che tale gesto per compiersi vince, nel suono di questo contrasto. Come dice Pirandello “la vita è nel mare, nel fuoco.. ma nella forma è la morte”. Lavoreremo quindi su questo processo e nel capire come meglio arrivare a qualcosa che decidiamo essere per ognuno il nostro fine.
Alla domanda che spesso mi viene posta “se sono o meno un professionista del teatro” e se quindi lo faccio o meno per lavoro mi sento di dare una risposta proprio sul significato della parola lavoro che deriva da fatica ma la sua radice sanscrita lab è “ottenere qualcosa” ma nel senso di “afferrare, prendere” e quindi è impegno quindi sì, siamo una compagnia di professionisti dall’impegno che mettiamo nel lavoro che facciamo perché non lo facciamo come un hobby tanto per farlo. La gratuità dipende solo dallo spazio che utilizziamo, che è uno spazio occupato di un centro sociale, ma questo laboratorio un costo ce l’ha perché io sarò sempre qui come sono ora ma anche voi dovrete esserci portando il vostro corpo, il vostro pensiero e il vostro impegno altrimenti non può funzionare, ma soprattutto io chiedo con la presenza l’obbedienza perché così se ci sarà modo potremmo arrivare anche ad un confronto con il pubblico nello spettacolo.
Si dice che l’artista si distingua nella società per la fame, ma questo è un luogo probabilmente ormai anacronistico oggi perché, eccetto alcuni casi di particolare disagio da rispettare, l’artista oggi non ha più fame del pane ma potrebbe avere una fame diversa che è fame di verità e chi viene qua o ha quel tipo di fame perché l’attore ricerca di canalizzare tutte le sue energie per sottrarsi dal quotidiano e creare qualcosa di exrtaquotidiano, che non ha le strutture del quotidiano ma è più bello e più forte.
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