Il tempo con le sue applicazioni pratiche di ritmo e flusso nello spettacolo
S Agostino, filosofo e santo cristiano nato in Algeria 1600 anni fa, scrive: “non nel tempo ma con il tempo Dio ha creato il cielo e la terra”. Il Tempo è qualcosa che scorre che possiamo pensare di misurare (so quanto tempo mi occorre per leggere un libro o per percorrere la strada da casa al teatro…) e ci sentiamo immersi in esso. Nella frase “con il tempo Dio creò” c’è un procedimento tecnico e manipolare il tempo, fermarlo, allungarlo e tagliarlo a pezzi, scagliarlo come una pietra è importantissimo per un attore e un regista. Il tempo è una bussola ma anche uno strumento che ci aiuta a elaborare i ritmi degli attori e dei singoli elementi, la musica, le pause, si trasformano grazie al regista fino a creare un flusso sinfonico in cui questi ritmi hanno tensioni differenti che trasportano lo spettatore ad un altro livello di coscienza. Mettere a confronto tutto quello che si sa, si racconta e insegna per un regista autodidatta è mettere la propria esperienza e si sa che tutti gli uomini e le donne sono tutti uguali di fronte alla legge ma la mia esperienza dice l’opposto e cioè ho visto che il teatro è l’incontro tra l’attore e lo spettatore. La mia esperienza dice che il teatro è vogliesom e ribellione, esaltazione e indifferenza, sempre alla ricerca di mezzi di sussistenza, di idee, e per un regista significa prendere una quantità di decisioni e assumersi responsabilità che vanno dal colore delle scarpe di un personaggio a come comunicare agli attori che una scena sulla quale hanno lavorato un mese sarà tagliata. La lotta quotidiana avviene in uno spazio sociale in cui si incontrano, organizzatori, attori, spettatori, giornalisti ma anche nello spazio interiore dove il regista sente la necessità di rifugiarsi per dialogare con sé stesso: deve cercare di trovare con le sue parole e la sua esperienza quello che chiede il mondo. Per quello che riguarda i termini e i modi del mestiere, la forma astratta che non ha a che vedere con la lotta quotidiana, il teatro è l’incontro tra l’attore e lo spettatore. Questa definizione è costantemente nelle mie riflessioni, nelle quali trovo che “il teatro è piantare uccelli nell’immaginazione dello spettatore” e come questa mi ripeto continuamente definizioni come anche una da Napoleone che dice “io faccio i miei piani con i sogni dei miei soldati che dormono”: vuol dire che il regista deve essere capace di sviluppare uno spettacolo dai sogni degli attori anche se loro non li ricordano o si presentano in modo confuso. La frase di S. Agostino è interessante perché obbliga a delle domande che richiedono le risposte nella propria esperienza in modo particolare, pensando in un modo particolare che è quello di trovare un procedimento tecnico che porti il regista ad aiutare i propri attori. Un procedimento tecnico è una risposta a un come, un modo di operare ripetibile e oggettivo che implica un processo mentale e una manifestazione fisica e vocale percepibile dagli altri nello spazio. Come lo spettatore seduto nella sua immobilità può percepire e visualizzare l’esperienza dell’attore trasformata in presenza scenica e cioè in forme e tensioni che generano un particolare tipo di energia nello spettatore, associazioni pensieri sensazioni, che gli permettano di dialogare con sé stesso. Mostrare l’invisibile vuol dire essere capaci di dar forma percettibile alle tensioni e alla vita dentro di noi. Tutti noi viviamo in modi molto distinti uno spazio interiore archeologico di cui non abbiamo consapevolezza totale ma che avviene e guida, orienta nell’essere nel mondo e in un determinato luogo e situazione che per la sua qualità di essere sociale produce una particolare percezione di ciò che si compie che viene quindi immediatamente interpretato, anche il piccolo gesto o silenzio. Viviamo contemporaneamente in due mondi distinti che ci portano ad essere viaggiatori della velocità, ci spostiamo da uno all’altro e il lavoro dell’attore consiste nel traghettare, trasportare, le sue intenzioni con una forma per lo spettatore. Come i pittori vivono le loro intenzioni attraverso il colore e il disegno e vediamo i cavalli dipinti da Durer o dal Mantegna nel 1500, o quelli di Franz Marc all’inizio del ‘900 che diventano il “cavallo blu”, il “cavallo rosso” tra il movimento dei pittori espressionisti tedeschi, ma come un attore può dar forma al cavallo? Come riesce a caratterizzarlo per trasferirne la tensione allo spettatore? Deve assorbirne il movimento del collo, come cammina a quattro zampe, com’è il suo equilibrio quando si ferma e come si inarca, come abbassa la testa per mangiare, com’è la sua esperienza quando porta in groppa una piccola bambina, se è un piccolo pony o un cavallo selvaggio delle praterie americane o ancora un pegaso alato. La tecnica per realizzare la percettibilità di queste immagini risiede nella biomeccanica, quella parte della fisica che studia i movimenti. Mejerchol’d ha desemplificato questa materia in una serie di esercizi e la definì ai suoi attori con la frase “quando arricci il naso devi farlo con tutto il tuo corpo” che è la generica “tutto quello che fai fallo con tutto te stesso”, con il corpo, con la mente, con l’anima e la memoria, ma con tutto quello che scorre nel sangue e dai geni di tua madre e tuo padre.
La biomeccanica aiuta a circoscrivere il ruolo del tempo e quindi ritorna a quel “con il tempo” di S. Agostino. Quando osservo l’esercizio di tirare una pietra di Mejerchol’d gli attori lo eseguono in una quantità sproporzionata di fasi e con un numero di suddivisioni come un numero di angolazioni e prospettive diverse che il gesto semplice può generare, dilatandolo fino a due minuti. Osservandolo da diversi punti dello spazio con delle cineprese e poi ha messo insieme le inquadrature di queste cineprese in modo da non permettere allo spettatore di prevedere quale sarebbe stata la fase seguente. Lavora con il tempo Mejerchol’d, e lo manipola nei suoi spettacoli e lo avviluppa perché era convinto che nel teatro il tempo è variazione e che il movimento cambia la tensione e quindi anche la percezione quindi sia nello spazio interno come in quello esterno. Cambiando forma e tensione l’attore cambia la percezione dello spettatore e stimola il suo sistema nervoso. Se il teatro è visione l’attore e il regista hanno il compito di visualizzare i diversi stati di coscienza, una successione di passaggi, di campi e gli attori manipolando il tempo agiscono sensorialmente sui sogni dei loro spettatori e proprio con queste variazioni Mejerchol’d dava allo spettatore il senso di temporalità. Nel teatro giapponese l’attore sembra muoversi in uno spazio di pietra, il suo costume lo fascia in modo tale che le gambe non possano allungarsi di molto e lo obbliga a muoversi a piccoli passi. Il piede scivola e solleva la punta mentre appoggia il tallone, l’appoggia di nuovo mentre tutto il peso si disloca sull’altro piede che ripete il movimento di quello prima, un movimento straniato che permette la camminata e allo spettatore di vivere la presenza insolita e non familiare di un corpo nello spazio. Tutta la nostra esperienza del ritmo del lavoro tecnico è binaria come il passo e il respiro che è inspirazione e esalazione, e rompere questo ritmo familiare alla natura per ricomporlo costruisce tutto un altro ritmo attraverso un processo tecnico che offre allo spettatore una esperienza e uno stato di coscienza diverso. Gli attori hanno elaborato una serie di procedimenti tecnici per manipolare il tempo. Qualsiasi azione è sottomessa ad un principio che divide tutto in tre fasi: la prima consiste nell’incontro con una resistenza che l’attore cerca di superare sfidando la sua forza, un momento di rottura attraverso cui prendere lo slancio per una fase finale in cui tutta l’energia si dispiega e in cui è la velocità dell’azione dell’attore fino a quando improvvisamente lui ritiene di fermare tutte le sue energie e ricominciare a lottare contro una resistenza da vincere e sviluppare. Ma questo non è un procedimento meccanico ma più una incorporazione di una visione che riflette fisicamente un pensiero, un procedimento tecnico che scolpisce il tempo con le intenzioni ed essere sempre nell’azione cambiando la percezione. Scolpire il tempo è una concezione anche del regista russo Andrej Tarkovskij e infatti anche il film usa un procedimento tecnico di inquadrature che variano angolazioni dell’azione. L’inquadratura è una porzione di spazio fisico del quale abbiamo preclusa la totalità che possiamo ricomporre con una somma di inquadrature. Quando il regista lavora verso il risultato finale lo fa attraverso il montaggio per indicare e generare allo spettatore i diversi stati di coscienza. Se il tempo può essere sfruttato dall’attore per le sue caratteristiche oggettive di lentezza e velocità egli si occupa dei suoi dinamismi sulla scena (rimanere in piedi, dirigere lo sguardo..) sfruttando proprio la lentezza e la velocità per le variazioni come nella danza. La variazione dei dinamismi dell’attore indica il passaggio da un comportamento privato, quotidiano, ad uno extraquotidiano che stimola il senso estetico dello spettatore. Ma oltre alla lentezza e alla velocità il tempo offre altre due caratteristiche che sono la progressione e la simultaneità. La progressione è una continuità, un andare avanti che porta da uno stadio al successivo mentre la simultaneità è la relazione tra movimenti contemporanei. Nel teatro generalmente è la progressione che viene sfruttata in parte questo si deve al testo che si spiega e si sviluppa ma anche perché lo spazio della scena all’italiana non ha permesso o stimolato la regia e gli attori a sfruttare le possibilità drammaturgiche della simultaneità di azioni indipendenti le une dalle altre.
Dalla verità teologica di S. Agostino si arriva con il procedimento tecnico a quella scientifica di Einstein che affermava la quarta dimensione del tempo e quindi solo colpendo lo spazio abbiamo la possibilità di scoprire il tempo proprio come fa il film con le sue inquadrature su porzioni di spazio.
Ma all’Odin Theatre si è cercata una drammaturgia per la simultaneità collocando la mess’in scena tra due file di spettatori rivolte l’una verso l’altra come a guardare un fiume su due sponde opposte. Nel teatro tradizionale l’inquadratura del palcoscenico è fissa e lo sguardo dello spettatore domina l’intera superficie e lui può focalizzare ogni cambio mentre nello “spazio fiume” lo spettatore sceglie la sua inquadratura e quindi quella porzione di spazio con le relative tensioni degli attori che lo animano. Sulla scena all’italiana lo spettatore è condotto dal regista mentre nello “spazio fiume” lo spettatore partecipa al montaggio di azioni simultanee che diventano una esperienza nell’esperienza con il tempo e lo spazio.
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