top of page
Search
underweartheatre

STORIA DEL TEATRO di Franco Ruffini

Uno storico del teatro è uno che racconta la storia del teatro. Raccontare la storia, fatti eventi, circostanze, nomi, date messi insieme per cercarne il senso. Guardare la storia al rovescio è guardarla non dal passato al presente come la si racconta, secondo la direzione in cui si svolgono i fatti, ma dal presente a passato che è la direzione in cui premono le domande. Raccontare la storia al rovescio è porsi una domanda del presente, nel presente, una domanda rivolta al futuro e cercare nel passato una risposta a questa domanda perché nella storia le risposte sono spesso diverse ma le vere domande sono solo poche. Guardare la storia al rovescio significa guardarla secondo un magazzino del nuovo come la definì Fabrizio Cruciani, un magazzino in cui non ci sono le cose risapute del passato ma le cose ancora sconosciute del presente e futuro. Raccontare la storia è anche un modo per distinguere tra vero e credibile perché i fatti della storia devono essere veri ma il racconto della storia al massimo può pretendere di essere credibile. Vero e credibile e sono due cose diverse come ci ha insegnato Stanislavsky. L’attore deve essere credibile anche se le situazioni che rappresenta certamente non lo sono. Raccontare la storia significa costruire un racconto credibile nei fatti e se possibile anche piacevole e questo insegnamento, che il racconto deve essere piacevole si deve a Mirella Schino, la più grande raccontatrice di storia del teatro.

La domanda del presente in questa situazione è “cos’è il terzo teatro?” e la risposta che mi viene dal magazzino del nuovo è che il teatro di qualsiasi epoca e contesto culturale è un’arte indigente, e cioè strutturalmente bisognoso di aiuto, non perché lo vuole o lo cerca per divertimento ma perché senza aiuto non può esistere, non può esistere senza risorse, è l’arte del paradosso economico, il suo costo di avviamento d’impresa è sproporzionatamente più alto di chiunque voglia iniziare un’impresa narrativa per cui basta carta e penna, inaugurare un’impresa teatrale richiede spazi, compagni, un luogo in cui fare, servizi ecc.. Il teatro nasce dipendente dalle risorse ma proprio in quanto dipende e non può fare a meno di queste ecco che proprio per questo sviluppa in sé una forza contraria, una voglia di indipendenza, di libertà, uno spazio di libertà. Il teatro è dunque un sistema a due facce, il teatro è sempre stato un sistema in cui si coniugano insieme e in modo conflittuale: la faccia della dipendenza da chi dà le risorse per esistere e la faccia dell’indipendenza in uno spazio di libertà che però non comprometta le risorse. Questa coesistenza di due facce opposte è vera da sempre, fin dalle origini del teatro occidentale, cioè addirittura dalla tragedia greca di 2500 anni fa che nel V sec a.C. ebbe origine nella grande città stato di Atene perché la tragedia greca non sono soltanto i 32 capolavori di Eschilo e Sofocle e Euripide che leggiamo nei libri ma la tragedia nella realtà concreta della storia era l’agone (gara) drammatico che si svolgeva ad Atene in occasione della grande dionisia, la festa dedicata a dioniso e nell’agone drammatico si presentavano tre poeti tragici, ognuno dei quali presentava tre tragedie e una commedia e alla fine dell’agone veniva proclamato il vincitore. Naturalmente queste venivano messe in scena in un grande teatro all’aperto stipato per più di mille spettatori. Già da questo si capisce l’enorme sforzo finanziario, organizzativo, logistico comportasse l’organizzazione di una grande dionisia per cui c’erano da pagare gli attori, i poeti, il premio per i poeti e persino gli spettatori. La città stato versava due oboli (moneta) ad ogni spettatore per compensarlo della perdita della giornata di lavoro. E’ stato stimato che una dionisia potesse costare dai 25 ai 30 talenti che se rapportiamo alla nostra moneta attuale equivale a circa 7-8 milioni di euro, una cifra spropositata se si pensa che lo stato di Atene nel momento del suo massimo splendore contava 400.000 abitanti contando vecchi, donne e schiavi e meteci (abitanti di Atene che non erano cittadini ateniesi). Perché fare tutto questo? Per propaganda, per fare pubblicità alla forma di governo che incredibilmente si era inventata e cioè la democrazia. Se non pensassimo la democrazia come qualcosa di scontato ci accorgeremmo dell’assurdo e dell’originalità dell’invenzione ateniese, l’idea che i governanti e i governati siano la stessa cosa, salvo il fatto che i governati sceglievano coloro che li avrebbero governati con libere elezioni era una cosa inconcepibile in un contesto storico e culturale in cui il governante era un tiranno, e non è un caso che se ripensiamo ai 32 capolavori di Eschilo, Euripide e Sofocle ci accorgiamo che queste tragedie raccontano le sventure dei tiranni. Anche la politica attuale pratica lo stesso sistema: indicare il nemico. Indicando il tiranno come il bersaglio delle sventure divine Atene faceva propaganda alla sua forma di governo. Con la tragedia greca inizia quello che per il teatro è chiamato il regime di festa, (sempre nella considerazione storica di dipendenza e indipendenza) questo era un regime in cui le risorse erano pagate dal mecenate di turno che all’epoca della tragedia greca era la città di Atene, poi molto più tardi saranno duchi e principi del rinascimento italiano o anche la corte di Francia ma comunque chi eroga le risorse in soluzione unica, e cioè paga tutte le spese per lo spettacolo è il mecenate. In questo regime lo spazio di libertà dov’è? Gli attori della grande dionisia al termine della festa venivano licenziati in attesa di una nuova festa ma gli attori con la parte imparata a memoria con qualcosa che ricordavano della parte di altri personaggi e qualcosa di improvvisato allestivano dei centoni dalle tragedie greche e andavano a rappresentarli nelle pazze per feste laiche che non erano dedicate a Dioniso, raccogliendo un ricavo nel cappello. Ciò che appare come un paradosso è che il primo spazio di libertà del teatro è stato il mercato, in questo spazio il teatro divenne indipendente dalla faccia del potere del mecenate, al punto che nel 341 a C. secondo alcuni Dicurco emanò un editto secondo cui era tassativamente vietato cambiare le parole dei 32 testi della tragedia greca e vietava prelevarne delle parti e farne commercio che era proprio quello che facevano gli attori per conquistarsi il loro spazio di libertà. Il regime di festa dura 2000 anni in occidente, fino al 1545 quando nasce un nuovo regime, il regime del mercato dell’intrattenimento. Un gruppo di teatranti romani si presentò davanti a un notaio per costituirsi legalmente in fraternal compagnia per vendere e fare spettacolo dei propri spettacoli: nacque così la commedia dell’arte e del professionismo teatrale. Nacque quello che già da allora si chiamava teatro da vendere. Nel regime del teatro dell’intrattenimento i teatranti rivendicano il diritto di essere padroni del teatro che fanno e decidere loro i tempi che non riguardavano solo le occasioni di festa ma tutto l’anno (esclusa la quaresima) i luoghi, le sale in cui farlo, i modi e le maschere, i testi… il mercato che era stato lo spazio di libertà diventa il nuovo padrone perché nel regime del mercato dell’intrattenimento gli spettatori stessi sono gli erogatori delle risorse. Anche questo che a noi sembra naturale è invece una rivoluzione importantissima perché il fatto che non ci fosse più un mecenate ad elargire le risorse in una soluzione unica ma siano gli spettatori per quote a pagare con una gazzetta o biglietto lo spettacolo è l’innovazione più importante della commedia dell’arte, più delle maschere, i tipi fissi, gli scenari, la presenza delle donne in scena… Nessuno paga niente senza avere qualcosa in cambio e i gli spettatori sono pagatori molto esigenti con il che il teatro che nel regime di festa era dipendente dal mecenate si è liberato da quella dipendenza per diventare schiavo e dipendente da un altro padrone che sono gli spettatori, il pubblico, il mercato e le leggi di mercato. E naturalmente, visto che il mercato è un sistema a due facce, a fronte di questa nuova dipendenza il teatro inventò un altro spazio di libertà e fu il dilettantismo. Nel ‘600 accanto alla commedia dell’arte si sviluppò un’altra forma di teatro: la ridicolosa. La commedia dell’arte al rovescio, praticata da dilettanti, membri di un’accademia, professionisti, artigiani, commercianti che praticavano il teatro per diletto durante il periodo di carnevale, rispetto alla commedia dell’arte che lavorava tutto l’anno e si basava su scenari, gli spettacoli della ridicolosa si basavano su un testo e non richiedevano alcun pagamento perché si basavano su fini artistico-educativi al contrario (secondo loro) degli spettacoli della commedia dell’arte che si basavano su fini di intrattenimento diseducativo. Infatti i dilettanti del teatro della ridicolosa si chiamavano tra di loro “accademici virtuosi” in opposizione ai “professionisti viziosi” della commedia dell’arte. Questa commedia dell’arte al rovescio mette in ombra la vera differenza tra professionismo e dilettantismo che Nando Ottaviani definisce così: il professionista fa teatro per guadagnarsi la vita mentre il dilettante si guadagna la vita per fare teatro. Per tutto il periodo di regime di mercato dell’intrattenimento, anche quando la commedia dell’arte sarà diventata desueta hanno convissuto insieme il professionismo a fini di mercato della commedia dell’arte e dall’altro il dilettantismo a fini artistico-educativi. Da un lato la faccia della dipendenza dal mercato e dal pubblico e dall’altro lo spazio di libertà del dilettantismo. Finché il mercato dell’intrattenimento cade in crisi e subentra un’alta fase della storia del teatro: il regime di mercato dell’arte. La data simbolica può essere indicata nel 1896, data in cui può essere girato il primo film della storia che è “L’arivè du train”, (l’arrivo del treno) dei fratelli Lumiere. Il pubblico andava in disibilio vedendo questo treno che sembrava andargli addosso ma il cinema dette il colpo di grazia al mercato dell’intrattenimento teatrale già in crisi per l’avvento degli spettacoli sportivi di massa, il ballo di società e anche per ragioni interne come la nascita di una psicologia del profondo, l’avvento di una narrativa e di una drammaturgia più interessata a scavare nella psiche dei personaggi piuttosto che a raccontarne delle storie. Comunque i proventi, le risorse che venivano dgli spettatori non bastano più per garantire l’esistenza del teatro che deve inventarsi una nuova forma per poter sopravvivere e trovare le risorse. Per poter chiedere le risorse alle sovvenzioni pubbliche o private, ma in nome di cosa? L’intrattenimento non è un bene ritenuto sovvenzionabile ma allora richiamava ormai pochi spettatori. Il teatro si inventò l’arte. Come abbiamo già visto con la parola democrazia anche l’arte nel so binomio con il teatro sembra per noi scontata ma all’inizio del ‘900 fu veramente uno slogan, un grido di battagli. Il teatro fondato da Stanislavskij proprio l’anno dopo l’arrivo del genere, nel 1897, si chiamò teatro d’arte (prima di chiamarlo così avevano pensato a tanti altri nomi). Stanislavskij pubblicò la propria autobiografia scandalosamente chiamandola “la mia vita nell’arte” e non “la mia vita nel teatro” e il testo canonico, la bibbia del nuovo tetro del ‘900, il piccolo libretto di Graig del 1905 si intitola “l’arte del teatro”. Era la parola d’ordine per potersi procurare le risorse da parte del mecenate pubblico. Il teatro avrebbe continuato a fare spettacoli ma non più di intrattenimento ma spettacoli di arte e naturalmente li avrebbe portati nel mercato perché dal successo di questi spettacoli derivava la possibilità che i sovvenzionatori erogassero le risorse necessarie. Dal regime di mercato dell’intrattenimento il teatro si libera dalla dipendenza dal pubblico e diventa dipendente dalle sovvenzioni pubbliche in nome dell’arte e deve cercarsi un altro spazio di libertà che fino ad allora era stato proprio quel dilettantismo che ora è il nuovo padrone: Stanislavkij come Graig erano stati grandi dilettanti che promotori del teatro come arte non lo basavano sui motori del professionismo ma sulle libere e sregolate leggi dell’arte. Il nuovo spazio di libertà è il laboratorio: nel regime di mercato dell’arte lo spazio di dipendenza sono le sovvenzioni e lo spazio di libertà è il teatro di laboratorio. Nel 1912 Stanislavkij fonda il primo studio di teatro d’arte di mosca che lui stesso pensò come “un’ordine spirituale degli artisti” e affidò la direzione a un certo Leopold Suverjiskij che veniva chiamato il bon suler e che non veniva dal teatro ma era un ribelle nato, un obiettore di coscienza che aveva pagato con il carcere la sua obiezione, uno che aveva guidato un gruppo di anomali e ribelli come lui fino in Canada dove aveva fondato una città libera ed era innamorato e ricambiato da Stanislavskij. Il bon suler dirige questo studio, in cui si sarebbero dovuti produrre spettacoli d’arte ma non come fine ultimo e unico dell’attore ma come strumento per l’edificazione spirituale degli attori. Certe pratiche sognate e in una certa misura messe in pratica del primo studio ma qui Stanislavkij comprò a sue spese un terreno in cui sognava di stabilire in modo duraturo il primo studio in cui gli attori avrebbero dovuto coltivare la terra, allevare gli animali, costruire le case e scene da soli e, cosa inconcepibile nel teatro dei professionisti e anche nel teatro del mercato dell’arte, alla fine della giornata di lavoro gli attori dovevano scrivere qual era una buon azione che avevano fatto per aiutare un compagno in difficoltà. Nel teatro dei professionisti vige un clima di conflittualità comprensibile che contrastava molto con quest’idea molto vicina al “fioretto” di questo spazio di laboratorio in cui è una libertà non dallo spettacolo che è il risultato del lavoro dell’attore ma dallo spettacolo come fine ultimo e unico. Tant’è vero che come nel regime di festa le risorse vengono dal mecenate e le libertà dal mercato, nel regime di mercato dell’intrattenimento le risorse vengono dal mercato e lo spazio di libertà viene dal dilettantismo, nel regime di mercato dell’arte le risorse vengono dal mercato dell’arte e la libertà è nel teatro laboratorio in cui si fanno spettacoli non come fine unico e ultimo e nel 1915 il bon suler scrisse una lettera a Stanislavskij in cui fa il bilancio di quattro anni di lavoro: “Creando lo studio io l’ho guidato secondo chiari principi che nel corso di quattro anni hanno portato all’attuale situazione: adesso il primo studio è una grossa istituzione e io non sono più necessario, bisogna rendersi conto che io non posso realizzare i miei sogni, ecco il limite, io non sono interessato al successo del mio lavoro e dello spettacolo, all’incasso, non è questo che mi entusiasma e mi appassiona ma è una compagnia di fratelli, un teatro di preghiera, un attore sacerdote”. Lo spettacolo prodotto come mezzo di edificazione spirituale degli attori aveva avuto un grande successo di critica e di pubblico, gli attori erano felici e iniziarono a chiedersi perché continuare l’edificazione spirituale dopo il successo, perché continuare a costruirsi da soli le scene, occuparsi della manutenzione della sala e scrivere la buona azione di ogni giorno. Quando lo studio divenne un’istituzione bon solair si fece da parte e pochi mesi dopo morì. Questo è il momento del terzo teatro, quello in cui non si riedita o prosegue il laboratorio improntato sullo schema del primo studio, ma una seconda rivoluzione teatrale del ‘900. Il terzo teatro ha inventato un modo per essere indipendenti non dallo spettacolo come prodotto del lavoro degli attori ma dallo spettacolo come fine ultimo che l’antropologia teatrale ha chiamato il livello pre-espressivo che è uno spazio intermedio tra l’uomo fuori dal teatro e l’uomo personaggio nel teatro che è il luogo dell’attore che non è più l’uomo fuori dal teatro ma non è ancora il personaggio. Il terzo teatro ha inventato nel treining lo spazio di libertà, in cui l’attore può lavorare su sé stesso producendo qualcosa che serve allo spettacolo ma non è servo dello spettacolo, può esistere anche a prescindere dallo spettacolo. Il terzo teatro ha inventato questo spazio di libertà ma ha dovuto affrontare il problema delle risorse che il teatro laboratorio non dovette affrontare perché nato come struttura parallela al teatro istituzionale o come una originalità suigeneris anche se a tutti gli effetti teatro finanziato dallo stato. Il terzo teatro ha dovuto inventarsi un modo per trovare le risorse, un modo geniale, un mercato del teatro diverso e aggiuntivo rispetto al mercato dello spettacolo, i gruppi di teatro portano sul mercato pedagogia, editoria, iniziative sul territorio lavoro nelle situazioni di disagio, lavoro nelle scuole oltre che spettacoli. Ma il teatro del mercato, comprensivo dello spettacolo ma non schiacciato sullo spettacolo, è stata la grande invenzione del terzo teatro per supplire all’altra faccia del proprio spazio di libertà, per avere le carte in regola per praticare le giornate di training, cioè il mercato del teatro. Il mercato non è né un angelo né un diavolo ma dipende da come lo si usa perché non è vero che il mercato è solo quello dell’ideologia del denaro, una cosa da capitalisti… Gli attori clandestini, raminghi, nomadi della tragedia greca praticavano il mercato come spazio di libertà e il mercato del terzo teatro nasce proprio per potersi garantire le risorse che a loro volta avrebbero consentito lo spazio di libertà del lavorare sullo spettacolo ancora come qualcosa che non coincide nel fine unico e ultimo. In questa storia del teatro che dalla tragedia greca arriva al terzo teatro c’è un’altra forma del sistema teatro, qualcosa in cui ci sarà una nuova forma di dipendenza e quindi di libertà. Ci sarà o c’è un dopo del terzo teatro? C’è già questo dopo? Tanti gruppi di teatro sono oggi diversi per fisionomia da quello iniziale e forse rappresentano già da oggi il dopo del terzo teatro.

1 view0 comments

Recent Posts

See All

Comments


bottom of page